Siccome Roosevelt non ha lasciato alcuna traccia duratura della sua vita e dei suoi pensieri dopo la sua morte prematura a Warm Springs, in Georgia, nell’aprile 1945, all’età di 63 anni, nell’aprile 1945 all’età di 63 anni, Hamilton si affida a quelle lasciate da altri, compresi i diari penetranti di Mackenzie King, il primo ministro canadese simile a Zelig che sembrava sempre a portata di mano nei momenti chiave, e Henry L. Stimson, il segretario di guerra repubblicano che a volte si opponeva ai giudizi di Roosevelt per poi arrivare a riconoscere le virtù dell’approccio del presidente.
Quando si apre “Guerra e Pace”, Roosevelt è entrato nel crepuscolo della sua presidenza, non più la figura dominante dei primi due libri, dirigendosi inesorabilmente verso una tomba precoce, aiutato e assecondato da un medico e da aiutanti che lo consideravano troppo necessario all’America e al mondo per lasciarlo uscire di scena per occuparsi della sua salute malferma. Anche se le sue facoltà stavano svanendo, Roosevelt rimase la forza trainante dietro la strategia per vincere la guerra e vincere la pace. “Senza la straordinaria leadership militare di F.D.R. dopo Pearl Harbor”, scrive Hamilton, “il corso della Seconda Guerra Mondiale sarebbe potuto andare diversamente – e io probabilmente non sarei qui a scriverne.”
Il fulcro della strategia di Roosevelt, naturalmente, fu l’operazione Overlord, l’invasione della Normandia, che Roosevelt sostenne senza sosta nonostante i dubbi, le discussioni e persino il sabotaggio di Churchill. Il primo ministro, consapevole che il sole stava tramontando sull’impero su cui il sole non tramontava mai, suggerì quasi tutte le altre opzioni. Premeva perché gli Alleati si concentrassero di più sull’Italia, così come gli sbarchi in Grecia e nell’Egeo. Era inspiegabilmente consumato dall’isola di Rodi. Si fissò sulla sanguinosa battaglia di Anzio. Roosevelt respinse un tentativo di Churchill di far deragliare l’invasione del D-Day dopo l’altro, determinato da solo a conquistare le spiagge della Normandia.
Il caso di Hamilton per Roosevelt è convincente. Anche in declino, il presidente aveva una visione che sfuggiva agli altri, compreso il suo partner più vicino. Tuttavia, se l’antipatia dell’autore per gli errori strategici di Churchill è sostenuta da una ricerca prodigiosa, sembra tuttavia spazzare via troppo facilmente la profonda importanza della sua singolare risolutezza, grinta e determinazione per sconfiggere Hitler – per non parlare della sua chiara visione di Stalin e dell’incombente minaccia sovietica che Roosevelt, sempre fiducioso dei suoi poteri di persuasione, pensava erroneamente di poter gestire.
Per Hamilton, l’ispirazione di Churchill non corrispondeva alla sagacia di Roosevelt, i suoi discorsi emozionanti non sostituivano la brillantezza strategica dell’americano. Roosevelt fu l’architetto e l’ingegnere che tradusse la magniloquenza di Churchill in un piano per la vittoria. Gli alleati combatterono sulle spiagge, come giurò memorabilmente Churchill, ma toccò a Franklin Roosevelt assicurarsi che fossero le spiagge giuste.